Grotta Del cervo

LA MAGIA DEI FOSFENI NELLE PITTURE DI GROTTA DEI CERVI A PORTO BADISCO

MARIA LAURA LEONE

Questo articolo riassume, brevemente, alcuni contenuti di un libro che ho appena finito di redigere1 inerente le pitture neolitiche di Grotta dei Cervi, risalenti a circa seimila anni fa. La grotta è profonda almeno 1500 m ed è nel fianco di una valletta che si apre sul porticciolo di Badisco, soprannominato Porto di Enea, a dieci km a Sud di Otranto. L’interpretazione di tali pitture finora ha brancolato nel buio e il solo studio sull’argomento è nella monografia che Paolo Graziosi pubblicò nel 1980. Il mio lavoro è il risultato di un’interpretazione mai avanzata: sulla semiotica grafica, sull’eziologia di tale arte e sulla lettura delle forme delle pareti legate alla sacralità dei disegni.

1 Il volume, dal titolo “LA FOSFENICA GROTTA DEI CERVI. Arte, Mitologia e Religione dei Pittori di Porto Badisco”, è reperibile attraverso il sito internet: www.grottacervibadisco.it.

 

Un ‘arte immersa nel buio

Dei pittori di Grotta dei Cervi ci rimane l’Arte, ovvero la rarità del loro pensiero sacro nato nelle lunghe notti cavernicole, ma poco più di niente dei corpi, dei volti, delle acconciature o del villaggio ove conducevano una vita normale alla luce del sole. Con le pitture parietali eseguite nel tempio sotterraneo hanno reso quasi eterne le loro visioni impossibili da spiegare. Oggi, a distanza di millenni, possiamo solo immaginarli durante le loro sedute artistiche, nelle tenebre della Madre Terra ispirati nel veder materializzarsi quelle forme astratte che avrebbero dipinto e che in neurologia si definiscono fenomeni entoptici. Ma quelle creature erano autentici abitanti di un universo parallelo e non il frutto dei processi neurologici, infatti la cultura dei Badischiani era intrisa di mito, creature fantastiche e un cervo magico da inseguire in un mondo altro ricco di fosfeni.

Sulle pareti di Grotta dei Cervi (Porto Badisco, Otranto) c’è uno dei complessi pittorici più misteriosi ed estesi del post-paleolitico europeo. Le sue numerosissime pitture sono state eseguite col guano bruno nero e l’ocra rossa, fra Neolitico medio ed Eneolitico, e sono concentrate a gruppi in vari ambienti di tre gallerie, per un totale di 600 metri di percorso. Tali pitture comprendono pochi elementi realistici e molti essenzialmente astratti. Buona parte della documentazione archeologica raccolta sul paleosuolo è ancora inedita ed è distribuita nei depositi museali di Firenze, Lecce e Taranto, invece la documen- tazione fotografica dell’arte è nel volume di Paolo Graziosi.

Maria Laura Leone

LA MAGIA DEI FOSFENI NELLE PITTURE DI GROTTA DEI CERVI A PORTO BADISCO       1

L’antro fu scoperto nel 1970 dal gruppo speleologico di Maglie e fu presto “consacrato” ai cervi poiché fra i numerosi disegni astratti ricorre la scena di un cacciatore di cervi assistito da due cani. A nostro parere la scena non ha nulla di realistico (come si è finora dedotto), ma trattiene gli indicatori di una complessa metafora associata ad un forte astrattismo che, oltre a caratterizzare tutto il repertorio artistico, pone incessanti problemi di interpretazione. Secondo l’analisi qui esposta, di tale astrattismo geometrico è possibile spiegarne almeno l’eziologia. Nel repertorio astratto, dunque, predominano: cerchi concentrici, spirali, croci, stelliformi, linee parallele, scacchiere; forme elaborate di doppie spirali, “esse” singole e speculari, labirinti, serpentiformi, catenelle, zigzag, scutiformi, pettiniformi; e ancora, umanoidi e teriomorfi, simili a fantasmi, spettri e spiritelli bizzarri. Alcuni di questi motivi sono tipici del posto, ma altri sono anche in altri contesti lontani, infatti appartengono già ai primordi dell’arte e caratterizzano il pensiero astratto preistorico e primitivo. La nostra ipotesi è che si tratta di un linguaggio grafico-metafisico solo parzialmente relazionato al reale. Nel caso specifico di Grotta dei Cervi fa parte del sommerso psichico quanto di quello geologico, in perfetto accordo con un habitat che suscita ed intensifica l’empatia con l’oscurità e le percezioni ipersensorie. Gli autori di queste pitture dovettero essere individui forniti di speciali investiture, sciamani-artisti o qualcosa di molto affine. In tale ottica, le motivazioni dell’arte e del sotterraneo assumono una nuova dimensione religiosa e la scena di caccia diventa leggibile non più come un normale atto venatorio, bensì come l’evocazione di un mito o di un rito sciamanico praticato in un contesto ideale per suscitare visioni: un varco per mondi ultra terreni.

Una grafica di matrice neurologica

Considerando sia il luogo che la particolare geometria è possibile collegare l’esuberanza artistica a percezioni extrasensoriali: visioni e allucinazioni, vissute durante un SMC (stato modificato di coscienza). C’è, infatti, un’impressionante similitudine fra alcuni motivi badischiani e i fosfeni: forme geometriche regolari e bizzarre che si vedono con i propri occhi a causa di determinate situazioni neurologiche. È possibile vedere i fosfeni (ψωζ: luce; ψαιυω: apparire, splendere, rendere visibile: apparizioni luminose) in diversi modi ma soprattutto per una prolungata assenza di stimoli visivi (come la lunga permanenza al buio completo o il procedere per ore in una tormenta di neve), per l’assunzione di sostanze allucinogene ma anche per una caduta, un colpo alla testa o più semplicemente con particolari pressioni dei bulbi oculari. Queste “luci mentali” sono, da tempo, studiate dai neurologi come fenomeni visivi particolarissimi che possono aiutare a comprendere il funzionamento della ricezione ottica. Gli scienziati, inizialmente, si sono rivolti alla loro comprensione in quanto manifestazioni luminescenti più o meno affascinanti,divertenti. Riproducibili elettricamente con elettrodi che stimolano la retina e la corteccia cerebrale, e chimicamente con l’assunzione di allucinogeni. Durante questi esperimenti si sono stilate delle classifiche tipologiche. Nell’elenco più noto (qui preso ad esempio) vi sono le quindici forme-base dalle quali i fosfeni si sviluppano (KELLOGG R. – KNOLL M. – KUGLER J. 1965).

Altri studi sui fosfeni sono stati condotti in campo antropologico, specifica- mente in contesti simbolici sacri e decorativi. Un caso comprovato di collegamento tra arte primitiva e fosfeni è testimoniato dalle ricerche di Reichel Dolmatoff (1975, 1978) sull’artigianato sacro dei Tukano, gli indigeni della Colombia. Oltre a constatare la similitudine formale tra artigianato Tukano e fosfeni, lo studioso ha ricevuto la testimonianza verbale dagli autori i quali hanno spiegato che quelle decorazioni facevano parte delle visioni sovrannaturali vissute durante l’assunzione sacramentale dello Yajè (l’allucinogeno dell’ayahuasca, una liana delle malpighiacee; Banisteriopsis caapi). I Tukano attribuiscono a tali forme concetti essenziali del loro mondo sovrannaturale e mitologico, quindi le usano come decorazioni rituali per evocare le forze spirituali. Anche le particolari pitture astratte e geometriche di alcuni ripari sotto roccia tra Texas, Arizona e California sono state oggetto di attenti studi svolti in tal senso. Oltre alle comparazioni con i fosfeni, gli studiosi hanno collegato i ritrovamenti archeologici e l’arte di Chumash (S. Barbara, California) col più recente culto indiano dell’antap, un rituale sciamanico nel quale spicca l’assunzione della Datura Stramonium, la potente pianta allucinogena delle solanacee (WELLMANN, 1981). I motivi geometrici di Badisco sono straordinariamente simili, se non identici, sia a quelli di Chumash che dei Tukano.

L’arte al servizio dello sciamanesimo

L’analogia con altri contesti può essere indicativa per ipotizzare che anche l’arte di Badisco abbia origini fosfeniche e motivazioni di tipo sciamanico. Lo sciamano, che era medium tra uomini e forze cosmiche, aveva il compito di interpretare i segni della natura tangibile e intangibile. Viveva il transfert in un animale reale oppure in uno spirito guida immaginario e comunque poteva sublimarsi in una metamorfosi fisica e mentale. Il viaggio estatico, come altri avvenimenti metafisici che viveva, era praticato nei luoghi sacri, a molti proibiti e difficilmente accessibili; boschi, grotte, anfratti e deserti (ELIADE 1977). Grotta dei Cervi rappresenterebbe l’esempio neolitico di un possibile sito di questo genere la cui direttiva enteogena fu, come minimo, nella natura stessa del sotterraneo; luogo buio prescelto per le immersioni nell’altrove, e l’uscita dalla coscienza ordinaria. È anche ipotizzabile, come fra i Tukano, che la natura delle pitture sia da associare a qualche agente psicoattivo o comunque abbia contenuti mitici. Generalmente dove vi sono stati allucinatori possono esserci espedienti artificiali per indurli, ma non assolutamente. Infatti, anche senza sostanza indotta, la sola oscurità e la deprivazione sensoriale sotterranea aiutano gli esperti a trovare la transe. Le tecniche che inducono spontaneamente gli stati alterati di coscienza, leggeri o profondi, sono diverse: deprivazione sensoriale, suoni ritmati o salmodiati, meditazione, digiuni e posizioni acrobatiche prolungate, danza, vortici visuali e sonori, forte dolore fisico, ecc. La stessa gamma delle alterazioni sensoriali è ampia: ipnosi, transe, estasi mistica, anestesia, leggera ebbrezza, eccitazione. Si direbbe, inoltre, che non tutti possono provare la stessa forma di alterazione. L’uso di coadiuvanti artificiali o di tecniche naturali rimane, tuttavia, una scelta di tipo culturale.

Provocare i fosfeni, per noi può essere un divertente fenomeno neurologico, ma per le culture primitive doveva rappresentare la ricerca impegnativa del contatto diretto con le ierofanie e il mito. Così, nell’applicazione artistica i fosfeni diventavano psicogrammi e mitogrammi, cioè rappresentazioni proprie dell’esperienza individuale, interpretate secondo la cultura e la mitologia del tempo. Vista in quest’ottica, la scena di caccia al cervo diventa una metafora in cui il cervide non è un animale da mangiare ma lo spirito-animale che guida il cacciatore-sciamano nel sovrannaturale e nell’astrattismo fosfenico. Ciò che regna intorno all’atto venatorio badischiano è la pura geometria, pertanto se tale atto non fosse inteso come un rituale resterebbe assolutamente incomprensibile; com’è accaduto finora. In presenza di uno spirito-animale il ruolo del cacciatore non può che essere quello di colui che viaggia dentro un mondo di visioni, dopo aver simbolicamente “catturato” la guida, ossia il cervo psicopompo.

Origini di una simbologia sacra

L’iconografia sacra del cervo è presente in ogni regione del mondo e tocca religioni primitive, politeistiche e monoteistiche. Sulla simbologia del cervo tutti i dizionari sono concordi nell’indicarlo una preda destinata ai ranghi più elevati, è psicopompo e perciò connesso con l’aldilà e il soprannaturale. Tuttavia l’origine del suo notevole valore spirituale è ancora oggetto di studio. Sulle statue-stele dell’Età del Rame di Valcamonica è simbolo dell’aldilà, nel mondo Assiro-babilonese due cervi compaiono associati all’albero della vita, l’asse del mondo, e sono il tramite fra realtà terrene e celesti. Nel mondo greco e romano, cervo e cerva, hanno proprietà mistiche e il maschio in particolare è psicopompo. Nell’arte cristiana delle origini è l’emblema del catecumeno che riceve il battesimo ed è raffigurato nelle decorazioni dei fonti battesimali (CIRLOT 1986).

Un anello di congiunzione fra tradizione pagana e cristiana delle origini è nella conversione di S. Eustachio, il generale Placido vissuto sotto l’imperatore Traiano, che andando a caccia avvistò un magnifico cervo raggiante con la croce di Cristo fra le corna. Si convertì al Cristianesimo e prese il nome di Eustachio. La leggenda di Eustachio, santo ausiliatore e protettore dei cacciatori, ci giunge dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze (una raccolta di Vite di Santi scritta nel XIII sec.), ma deriva da altre leggende eurasiatiche. La versione più ultima riguarderebbe la conversione di S. Ubaldo di Liegi (nel XV sec.). È, dunque, il frutto di un sincretismo pagano e cristiano a largo raggio geografico. Ma oltre ad Eustachio e Ubaldo, altri santi o fatti miracolosi cristiani sono caratterizzati da apparizioni di cervi teofori, con il coinvolgimento di cani, lupi, leoni, buoi e tori, in un mosaico di simbolismi cristallizzati per sovrapposizione (AAVV 1999).

Spostandoci nella Puglia cristiana degli inizi del sec. XI, troviamo un’apparizione sacra all’origine del culto della Madonna dell’Incoronata, presso Foggia ed il fiume Cervaro, uno tra i santuari mariani più antichi d’Italia. Il protagonista è un ricco signore che andato a caccia, dopo un sogno premonitore, vede un bellissimo daino (o cervo); questo si lascia inseguire e lo conduce presso una quercia dove accade un evento miracoloso. L’albero inizia ad emanare una luce folgorante e manifesta l’apparizione della Madonna (dalla pelle nera) seduta in trono tra i rami. La Vergine esorterà il cacciatore a costruire una cappella in suo onore, nella quale elargirà grazie ai fedeli. Ma il racconto ha un seguito. Dopo il cacciatore giungerà un contadino con due buoi; gli animali, alla vista della statua della Madonna, si inginocchieranno per devozione e il contadino metterà un recipiente per l’olio santo che, per volere della Vergine, brucerà perennemente.

In questi racconti non c’è solo la presenza di un animale portatore di ierofanie ma pure la contrapposizione cervo-toro in un bilanciamento di poteri sacri. Due risvolti ideologici che dalla preistoria penetrano nelle religioni più recenti con un’alternanza di ruoli non sempre chiari ma risalenti, evidentemente, al più antico pantheon zoomorfo. La sacralità del cervo ci è pervenuta dal Paleolitico dalla religiosità della caccia, dall’intreccio fra natura potente e destini ultimi dell’uomo, da quando tra l’uomo e l’animale fu stabilito un contatto ad ogni livello: psicologico, emotivo, metafisico. E la cristianizzazione, per diffondersi, ha usato i migliori vettori teologici preesistenti.

Siamo persuasi che, nell’ordine di una gerarchia sacra, quella del cervo sia stata una religione superiore. Le spiegazioni della sua fortuna sono sepolte nel sapere millenario di coloro che li osservano in natura, cacciatori e sciamani che conoscevano bene questi animali. C’è effettivamente un comportamento naturale che collegherebbe ragionevolmente cervi, alci ed altre specie di erbivori cornuti, di varie latitudini geografiche, al mondo visionario e sovrannaturale cioè la capacità di individuare piante medicinali, psicotrope e funghi allucinogeni. L’osservazione diretta di questi animali ha dimostrato che, non solo si nutrono di piante e funghi psicoattivi ma ne traggono un certo “diletto” e le cercano avidamente. L’individuazione del ‘cibo degli dei’, che ha certamente suscitato interesse negli sciamani (unitamente ad altre attitudini), spiegherebbe una buona parte della fortuna simbolica e iconografica; la stessa però ha perso nel tempo il significato iniziale. Dunque è possibile che l’interesse verso questi animali era motivato dal fatto che sono spontaneamente ‘psiconauti’ e perciò medium in natura. Si sa che le renne della Siberia e i caribù del Canada mangiano l’Amanita Muscaria e che presso alcune culture siberiane i cervidi ‘drogati’ sono inseguiti dagli sciamani che ne apprezzano particolarmente le carni. C’è una letteratura scientifica che indaga sugli animali che volontaria- mente mangiano piante psicoattive (SAMORINI, 2000; 2002).

Per l’etnia messicana Huichol il cervo è il padre del sacro cactus peyote e nel mito delle origini si trovano indicazioni precise del rapporto mitico cervo- peyote: «Ancora oggi gli Huichol, nel loro pellegrinaggio a Wirikúta (la terra endemica del magico cactus), sono soliti “cacciare” il cervo-peyote, eseguendo la medesima cerimonia della caccia lanciando delle frecce sul cervo-peyote, come indicato nel mito. In effetti, ad ogni pellegrinaggio, i pellegrini assumono l’identità di spiriti, poiché solo in questo stato possono ripetere le gesta ancestrali della caccia, dell’uccisione, e della raccolta del cervo-peyote». (SAMORINI 1995). L’attitudine a riconoscere le piante curative è pure indicata nei Bestiari medievali, che indicano il cervo capace di guarire dalla ferita di una freccia perché sfrutta i poteri medicamentosi del Dittamo (un vegetale che fa guarire anche dal veleno del serpente). Una fonte più vicina a noi riferisce, invece, che come esca i cacciatori della tribù Ojiba (Nord America) mettevano una borsa di medicinali sull’impronta dello zoccolo di un cervo, affinché l’animale tornasse indietro per cibarsene (PALMER 2002).

Probabilmente la traccia della fortuna sacra di tali animali, come spiriti guida e messaggeri del sovrannaturale, è in questi indizi etologici ed etnologici, tuttavia non bisogna dimenticare anche quelle doti che notoriamente gli sono invidiate: la regalità, l’agilità, la forza sessuale e combattiva, il potere rigenerativo racchiuso nella rinascita delle corna. Ma i cacciatori di Badisco a quali opportunità di queste si saranno ispirati?

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1978- Beyond the Milky Way: Hallucinatory Imagery of the Tukano Indians. Los Angeles: UCLA Latin American Center. Il cap. che tratta dell’arte fosfenica è il n. III Le origini della decorazione

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LINK UTILI :

http://www.grottacervibadisco.it/risorse/grottacervibadisco.php

 

http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/09/la-grotta-dei-cervi-di-badisco-considerazioni-ed-ipotesi-sul-pittogramma-dello-sciamano/

 

http://www.maglie.cchnet.it/percorsi-2

 

http://3dlab.caspur.it/index.php/progetti/24-grotta-dei-cervi-porto-badisco

 

http://www.focus.it/cultura/storia/ecco-la-grotta-proibita